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Da qualche anno negli USA è nata una nuova figura, il Chief Happiness Officer (CHO), in italiano il “Manager della felicità”, figura che comincia a fare capolino nelle aziende italiane. Il suo compito? Occuparsi della felicità dei dipendenti, che in concreto significa aiutarli nella loro loro realizzazione professionale, con l’obiettivo finale di creare un ambiente lavorativo a misura di dipendente. “Suona come il titolo di una brutta sitcom” scrive Forbes, “ma è quello che i tuoi dipendenti vogliono”.
Un dipendente felice è un dipendente produttivo, su questo non abbiamo dubbi: ma in pratica, da cosa dipende la felicità di un lavoratore?
"Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita"
Lo disse Confucio e noi siamo d'accordo, ma non del tutto. La passione per il proprio lavoro è importante ma non deve essere totalizzante.
Come ha evidenziato il World Happiness Report 2017, infatti, il primo indicatore del livello di benessere di un dipendente è dato dall’equilibrio lavoro – vita privata.
“Più importante dello stipendio? È’ il giusto equilibrio tra lavoro – vita privata, che si presenta come una delle ragioni principali che determinano il benessere di una persona” si legge nel report.
Guadagnare cifre esorbitanti ma non avere il tempo per vivere la propria vita è oggi una delle discriminanti principali nella scelta del posto di lavoro.
Netflix, Google e Facebook insegnano: non c'è niente di più importante della Company Culture.
La cultura aziendale rappresenta quell’insieme di pratiche e comportamenti che distinguono il modo in cui vengono gestiti un’azienda e i suoi dipendenti. Ferie premio, smart working, congedi parentali e flessibilità oraria, fino ad arrivare alle sale pisolino e agli spazi di svago delle grandi multinazionali.
L’importante è rendere la vita (lavorativa e non) del dipendente il più semplice possibile.
Ed è proprio parlando di cultura aziendale che arriviamo al terzo elemento, trend più recente ma non meno importante: la diversity.
Diversity significa avere talenti diversi, sotto diversi punti di vista: età, competenze, percorso formativo e professionale, cultura e sesso. Tutta questa diversità, però, non sopravvive se non sono presenti inclusione e senso di appartenenza.
“Diversity is being invited to the party, inclusion is being asked to dance, and belonging is dancing like no one’s watching” si legge nel report LinkedIn sui trend del recruiting per il 2018.
I dati del report parlano chiaro: i team formati da profili diversi sono più produttivi, innovativi e coinvolti.
«Lavorare in un’azienda inclusiva vuol dire, citando Madonna, “express yourself”: avere cioè la possibilità di esprimere se stessi, in ambito relazionale e professionale, e di concentrarsi sul lavoro, senza inutili dispersioni di energia, filtrando il proprio modo di relazionarsi verso gli altri. Verso i colleghi, poi, significa avere la possibilità di avere accanto una persona trasparente, con cui parlare alla macchinetta del caffè del week end con la propria moglie, o con il proprio compagno» racconta Andrea Atteritano, uno dei legali dello studio internazionale Hogan Lovells, intervistato da Vanity Fair.
Se una volta diversità era un obiettivo fine a sè stesso, “una casella che le aziende spuntavano”, oggi è direttamente connessa alla cultura aziendale e alla sua performance economica. Il report di LinkedIn evidenzia infatti come il 78% delle aziende che ha come priorità la diversity lo faccia per migliorare la cultura aziendale mentre il 62% per migliorare la performance finanziaria. Quindi, chi non punta sulla diversity è destinato a vedere i suoi potenziali candidati diradarsi sempre di più.
Un dipendente felice è un dipendente produttivo. Non solo, arrivati a questo punto possiamo dire che si tratta di una vittoria per entrambe le parti: un dipendete felice diventa “ambasciatore” della cultura aziendale, contribuendo al processo di employer branding e ad attrarre i migliori talenti.