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La mole di informazioni a cui siamo sottoposti nella vita di tutti i giorni, unita alle numerose decisioni più o meno importanti che ogni giorno dobbiamo prendere in lassi di tempo spesso troppo brevi, ci porta incosciamente ad applicare un meccanismo di semplificazione del pensiero denominato “pregiudizio”.
Se da un lato ci consente di ridurre il tempo di azione, dall’altro questa rapida connessione di concetti preesintenti nella nostra mappatura mentale può portare a prendere decisioni superificiali causando gravi errori di valutazione in tutti gli ambiti.
La maggior parte di noi vorrebbe potersi vantare di avere una mente aperta, di non cader vittima di alcun pregiudizio, ma è più facile a dirsi che a farsi e a confermarlo sono anche diversi studi psicologici secondo cui ci sono dei pregiudizi che abbiamo interiorizzato e che applichiamo inconsciamente nella nostra vita di tutti i giorni.
L’effetto alone, per esempio, scaturisce dal nostro modo di porci, dal nostro fisico e dal nostro abbigliamento, generando un giudizio che viene applicato di riflesso alla nostra intera persona. Un altro esempio? Tendiamo a preferire chi avvalora e conferma le nostre idee a chi mette in dubbio le nostre convinzioni o cerca di rompere gli schemi obbligandoci ad uscire dalla “Comfort Zone”.
Questo tipo di problematica come detto si presenta in tutte quelle circostanze che prevedono un processo di giudizio/valutazione, ed è dunque particolare manifesto anche all’interno del mondo della Selezione del Personale.
Basti pensare che, secondo uno studio, il 75% dei CV ricevuti dalle aziende non vengono neanche presi in considerazione in quanto automaticamente scartati da sistemi di screening algoritmici impostati su parametri pre-definiti quali voto di laurea minimo, università di provenienza, età etc.
Il risultato è dunque l’impossibilità per i più di dimostrare chi sono o di cosa sono capaci e il forte rischio per le aziende di perdere persone che potrebbero portare loro un reale valore aggiunto.
Se è vero che il lavoro è parte fondamentale nella vita di ciascun individuo, sia dal punto di vista del sostentamento che della soddisfazione personale, ogni candidato dovrebbe avere diritto ad una valutazione oggettiva delle proprie capacità e potenzialità.
In soccorso a questa problematica è arrivato il “blind recruitment”, ovvero il metodo di valutazione al buio degli elementi più tangibili e concreti che vanno a definire il talento e le capacità del singolo prima di tutto, rappresenta il futuro della selezione del personale.
Per capire il concetto fondamentale su cui si basa il blind recruitment, prendiamo due diversi esempi di differenti ambiti in cui lo stesso principio è stato applicato con successo:
Come non ricordare l’esperimento condotto della Toronto Symphony Orchestra che, organizzando audizioni al buio, arrivò ad ottenere un sorprendente risultato in termini di gender equality, passando da un’orchestra totalmente maschile ad una nuova composizione di membri equamente distribuita tra uomini e donne.
Un esempio più contemporaneo di come questa metodologia sia stata applicata con successo arriva dal popolare talent “The Voice”, dove giudici esperti del settore musicale danno le spalle agli aspiranti cantanti per poter rimanere focalizzati unicamente sulle doti canore senza farsi influenzare dal look dei concorrenti o da fattori estetici, culturali e sociali.
Lo stesso principio è applicabile anche al mondo HR e ai suoi processi di selezione. Negli USA e nei paesi anglosassoni questo trend ha iniziato ad essere già presente da qualche anno, alcune lungimiranti multinazionali per esempio, hanno deciso di eliminare il nome dai CV delle candidature ricevute per le posizioni più junior, oppure di convocare i candidati a colloquio senza conoscerne l’indirizzo di abitazione o le scuole frequentate.
Chi ha già provato questo metodo ha potuto constatare quanto questo non sia semplicemente eticamente corretto e bello da raccontare, ma anche estremamente efficace sotto diversi aspetti.
I vantaggi che un metodo di un recruitment “al buio” può portare sono molteplici e collegati tra loro: gender balance e diversity incrementano l’innovazione interna all’azienda grazie al moltiplicarsi di punti di vista e prospettive differenti.
Un metodo di selezione meritocratico impatta sulla reputazione del brand e l’esperienza del candidato, il quale, sentendosi ascoltato, valorizzato e accolto in tutta la sua unicità, entrerà in azienda maggiormente motivato e con la voglia di dare il meglio di sé, con una conseguente diminuzione del turnover.
Un esperimento simile abbiamo deciso di farlo anche noi di Just Knock, invitando diversi esperti nel campo delle risorse umane a valutare CV dai quali abbiamo nascosto nome e cognome e altri dati personali. Ed il risultato è stato sorprendente:
Con Just Knock abbiamo deciso di essere tra i primi in Europa a scommetere sul blind recruiting, investendo sul digitale per riportare il focus sull’aspetto più umano delle risorse.
Attraverso la nostra piattaforma candidati motivati si possono proporre inviando le proprie idee in risposta a business case aziendali. Dall’altra parte i recruiter basano la prima valutazione unicamente sui progetti presentati senza poter vedere le identità. Abbiamo ribaltato il processo di selezione spostando il CV in secondo piano così che non sia più un elemento di sbarramento all’entrata ma un’informazione da aggiungere all’idea che il candidato è stato in grado di presentare.