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Nell’ultimo decennio chi ha raggiunto il traguardo di una laurea triennale o specialistica non sempre ha avuto vita facile nel trovare un impiego.
I giovani italiani hanno addirittura dovuto sentirsi dire di essere dei bamboccioni, di essere ancora degli eterni Peter Pan, di non sapersi rimboccare le maniche e di essere capricciosi nella scelta di un lavoro che non necessariamente potesse soddisfare le loro aspettative.
Ed ecco che magari a trenta anni molti ragazzi preferiscano restare in casa dei genitori. Ma quali sono le cause principali di queste scelte?
Competizione sempre più feroce nel mercato del lavoro, precarietà dei contratti, stipendi non sufficienti a garantire la permanenza in città in cui il costo della vita è più alto, affitti difficili da pagare, lavori sottopagati.
Non sorprende quindi che, secondo i dati UE del 2018, l’Italia sia lo stato membro con il più alto tasso di giovani adulti (tra i 18 e i 34 anni) che vivono con i genitori.
Nel nostro Paese, come spiegato da Lilli Gruber su un articolo pubblicato su Sette, vige ancora un concetto di famiglia arcaico e più vicino alla società contadina di inizio 900, secondo il quale sotto lo stesso tetto possono vivere i figli anche dopo il matrimonio con i nipoti e che per certi versi rappresenta un costrutto mentale che frena alcuni giovani a tentare la fortuna oltre le mura di casa.
Il mercato del lavoro però richiede un’attitudine ben diversa: capacità e disponibilità allo spostamento, iniziativa economica, intraprendenza, dinamicità. Caratteristiche soprattutto dei Paesi del Nord Europa in cui i giovani, appena concluso il ciclo di studi, cercano la loro indipendenza andando via da casa.
In un contesto del genere, ha fatto rumore la sentenza numero 17183 della Corte di Cassazione secondo cui “un figlio ha il dovere di rendersi autonomo dai propri genitori e cercarsi un’occupazione in grado di mantenerlo”. La sentenza è stata emessa a seguito di un ricorso presentato da una donna che contestava la decisione della Corte d’appello di revocare l’assegnazione della casa coniugale e l’assegno che l’ex marito aveva versato per anni al figlio, un ragazzo di circa 30 anni di professione insegnante di musica (precario) e che guadagnava circa 20 mila euro all’anno come supplente.
La decisione poggia sull’orientamento della Corte secondo cui sia necessaria una rivoluzione anche all’interna della famiglia italiana, quindi passare da un’ottica di assistenzialismo a quella di una più diffusa auto responsabilità.
Secondo i giudici, spettava al ragazzo “ridurre le proprie ambizioni adolescenziali” perché, se da un lato è giusto e fondamentale poter seguire le proprie aspirazioni, dall’altro lato a un certo punto si deve anche fare i conti con la realtà: poter pagare le bollette e fare la spesa al supermercato.
Ma non finisce qui. Nella sentenza sopra citata e nella numero 3659 del febbraio scorso, sempre la Cassazione ha sancito il diritto del genitore a ricevere un rimborso delle spese sostenute non appena il figlio avrà raggiunto l’autosufficienza economica.